L’osteria è immediatamente nell’immaginario collettivo un luogo di convivialità, allegria, bevute di vino rosso con gli amici e mangiate di cibo semplice e a basso costo. Un ambiente genuino dove incontrarsi, giocare, ridere, costruire relazioni sociali e in cui stare bene che ha – proprio per questo motivo – stimolato negli anni la fantasia e l’immaginazione artistica e letteraria di vari protagonisti della nostra cultura. Tra il Trecento e il Quattrocento in Italia le osterie erano presenti in numero elevatissimo sul territorio e costituivano il principale punto di aggregazione dopo la piazza e la chiesa. Erano frequentate soprattutto da uomini in orario serale ed hanno mantenuto per secoli questa loro connotazione di allegria e socialità. Qui succedeva di tutto tra giochi, conquiste, provocazioni e risse e l’attrazione da parte di letterati e artisti vari era quindi inevitabile.
I poeti latini Marziale e Giovenale hanno dedicato vari canti al racconto e alla celebrazione della vita nelle osterie nella Roma imperiale, frequentate dal popolo e anche da tanti tipi poco raccomandabili. Marziale ne “Il canto dell’osteria” narra scene tipiche delle serate trascorse in questi luoghi di aggregazione.
Cecco Angiolieri nel XII secolo scrisse un sonetto “Tre cose solamente mi so ‘n grado” nel quale “le donne, la taverna e il dado” sono elencate come elementi preferiti nella sua vita. Sullo stile dell’Angiolieri troviamo il “Canto dei bevitori”: canto goliardico di epoca medievale contenuto nei Carmina Burana, testi poetici dell’XI e XII secolo e perfetto esempio di ode alla vita nell’osteria.
“In taberna quando sumus…”: “Quando siamo alla taverna non ci interessa nient’altro ma ci dedichiamo al gioco per il quale andiamo matti. Quello che succede alla taverna dove il gioco è allegria questo sì che è interessante, state a sentire: c’è chi gioca, c’è chi beve e c’è chi vive indecentemente. E quelli che muoiono per il gioco e perdono anche i vestiti…”. L’osteria era un luogo caldo, spensierato in cui ci si poteva sentire liberi e godere dei piaceri della vita in contrasto con le difficoltà del mondo esterno e i canti popolari come questo ne trasmettono in pieno l’essenza.
Riferimenti e scene accadute in varie osterie abbondano nella letteratura. Le troviamo nel “Don Chisciotte” di Cervantes come luoghi di soste temporanee e di incontri, nei “Racconti di Canterbury” di Geoffrey Chaucer, nei “Promessi sposi” di Manzoni in cui l’osteria è un ambiente ricco di tutti i tipi sociali dai galantuomini ai tipi loschi pronti ad ingannare e truffare, nei “Malavoglia” di Verga come luogo del mangiare e bere con gli amici godendosi la vita senza far nulla in una forma di ozio molto vicina all’’abbrutimento negativo. Anche Zola nell’ “Assomoir” descrive l’osteria in modo negativo come fonte di promiscuità, degrado e disperazione. Come dimenticare poi l’Osteria del gambero rosso di Pinocchio dove avviene l’incontro con il Gatto e la Volpe?
Avvicinandoci più ai giorni nostri Umberto Saba nel “Canzoniere” scrive un canto – “All’isoletta” – dedicato alla sua ricerca tra i vicoli di Trieste di un luogo umile e appartato in cui sentirsi al sicuro dal mondo tra canti e goliardia. Italo Calvino nel primo capitolo del “Sentiero dei nidi di ragno” descrive l’osteria come luogo di sofferto ed incerto ingresso nel mondo dei grandi per il protagonista.
L’osteria continua ancora oggi ad esercitare un grande fascino nell’immaginario comune. Cantori moderni ne sono stati ad esempio Fabrizio De Andrè nella “Città vecchia” e Francesco Guccini nella “Canzone delle osterie di fuori porta”.
I tempi cambiano e corrono veloci ma il bisogno di ritrovarsi in un ambiente semplice, genuino ed anticonformista dove bere e chiacchierare in tranquillità lasciando il mondo fuori resta intatto.