Nella memoria e nell’immaginario comune l’osteria è oggi simbolo di una tradizione tutta italiana ed appartiene ad un passato che affonda le sue radici, almeno nei suoi tratti riconoscibili, nel tardo Ottocento.
Per certi versi quest’immagine ci fa quindi apparire l’osteria come un luogo antico, in grado di recuperare ancora oggi sapori ed usanze della tradizione, certo, ma sostanzialmente legato ad un passato non più in grado di dialogare – e competere – con ritmi e diavolerie della ristorazione contemporanea, sempre più contaminata e internazionale, sempre più ‘veloce’ e con una irrinunciabile vocazione per l’innovazione a tutti i costi.
Mentre invece una lettura storica fattuale ci può portare facilmente a notare quelli che sono stati i tratti decisamente moderni dell’osteria della fine dell’Ottocento, in modo particolare in quella Roma ex papalina che si trovava di punto in bianco a svolgere il ruolo di Capitale del nuovo Regno d’Italia, con tutto ciò che questo comportava sul piano antropologico e sociale.
Alcune settimane fa è stato pubblicato un articolo sulla storia della diffusione del gin in Inghilterra nel quale emergeva, in controluce, quel percorso che avrebbe portato alla nascita dei moderni pub vittoriani, antesignani e progenitori diretti di quella che ancora oggi è l’identità e il ruolo del pub contemporaneo.
Anche l’osteria romana di tradizione risorgimentale avrà un ruolo decisamente moderno, nel giro di pochi decenni tra la metà dell’Ottocento e fino a tutta l’età giolittiana, nell’accogliere i processi di aggregazione dei nuovi ceti cittadini che si erano andati addensando a Roma, ben prima ma soprattutto dopo la fatidica breccia di Porta Pia, quando nel 1870 i piemontesi avrebbero messo fine al potere temporale del papato di Pio IX.
Uno sguardo suggestivo su questo momento storico può arrivarci anche in questo caso da un dipinto, un olio su tela del 1866 del pittore danese Carl Heinrich Bloch.
Come emerge chiaramente dal dipinto l’osteria romana non era esattamente un locale ‘di lusso’, almeno in prima apparenza.
Le pareti sporche e disadorne suggeriscono immediatamente l’anima ‘popolare’ dell’osteria romana dell’epoca, elemento che quindi conferma almeno in parte lo stereotipo che alberga ancora oggi nell’immaginario comune.
In linea di massima le primissime osterie erano utilizzate davvero dagli strati più poveri della popolazione, ovvero le famiglie di lavoratori stagionali – in arrivo prevalentemente dalla provincia più prossima all’Urbe e dall’Abruzzo – che soggiornavano a Roma senza avere necessariamente un domicilio a disposizione, ma anzi sistemandosi in baracche di fortuna in quelle che all’epoca erano ancora note come suburre, ovvero le primissime periferie di quella che sarebbe stata poi la città metropolitana del secolo successivo.
Questi lavoratori stagionali andavano nelle osterie per mangiare con la famiglia, ma portavano con loro il cibo che avrebbe garantito il pasto familiare e pertanto l’oste era necessario – oltre che per l’usufrutto dei locali e talvolta persino della cucina – per l’acquisto del vino, elemento che allora era semplicemente indispensabile nella dieta quotidiana di questi ceti contadini, che soggiornavano in città per eseguire lavori stagionali, appunto, e accedere quindi a redditi alternativi a quelli tradizionalmente disponibili tramite la pastorizia e l’agricoltura.
Ma tra questi ceti popolari emergevano anche i nuovi ceti artigiani che avrebbero popolato l’Urbe a partire dalla fine del secolo, quando il nuovo ruolo di Roma dal punto di vista politico portò in città decine di migliaia di italiani nel giro di poco meno di un trentennio.
Il dipinto di Bloch ritrae infatti un’osteria già apertamente borghese dal punto di vista antropologico.
In primo piano abbiamo una tavolata di popolani, ovvero un ceto artigiano non proprio ricco ma certamente nemmeno immiserito, come le collane e i gioielli delle belle donne che ci guardano non possono che testimoniare. Ma il loro accompagnatore ci guarda insospettito, come si usa con i forestieri, ed ha un coltello che sporge visibilmente dalla tasca.
Sullo sfondo si notano invece chiaramente dei borghesi che discutono – di politica, di economia, e non di teologia, probabilmente – e sono dei signori dai volti cortesi, ben vestiti, che continuano la loro conversazione incuranti dello ‘sguardo’ del pittore (come ci si aspetterebbe, appunto, in qualsiasi moderno locale pubblico adibito alla ristorazione).
E la modernità dell’osteria romana risorgimentale è tutta qui, proprio come nel caso dei pub vittoriani inglesi.
Le osterie sono state i primi locali pubblici in grado di accogliere – non solo per la mescita del vino ma ben presto per anche per l’offerta di cibo, attingendo ai piatti caldi e freddi della tradizione gastronomica popolare – i nuovi ceti cittadini dell’Italia moderna, mescolando antropologie e ceti sociali sui medesimi tavolacci in legno massello, tipici da osteria e che ancora oggi rimangono ben piantati nell’immaginario comune.
Un immaginario comune che rappresenta ancora l’osteria come il più informale, genuino ed autentico luogo della ristorazione pubblica, direttamente connesso con tradizioni passate dal sapore antico ma purtuttavia intimamente pervaso da tratti moderni, anche grazie a spunti ed innovazioni lenticolari che l’eclettismo metropolitano di una società in costante divenire ha saputo favorire, nel bene o nel male, nel corso degli ultimi due secoli.